17 aprile 2015

“IL MARE NON CHIUDE MAI”

Presentazione standard1Amaltea, è lo pseudonimo dietro cui si cela, per ragioni di privacy la giornalista autrice del blog "adottiamoci tanto bene", nonché curatrice di una rubrica su Gioia. Nel 2011, insieme a suo marito, ha adottato tre bambini provenienti dalla Russia.
I suoi articoli sono davvero esilaranti: profondi, ironici, poetici e divertenti.
Un piccolo assaggio, tratto dalla prima puntata :
 
 
 INCONTRO AL PARCO:
"Carini i bambini, lei è italiana?"
"Sì."
"No, glielo chiedevo perché i suoi figli mi sembravano stranieri".
"Sì, infatti sono russi, li abbiamo adottati da poco tempo".
"Oddio, mi scusi non lo sapevo".
"Beh, comunque non c'è niente di male, direi."
"No, infatti, anzi, pensi che anch'io e mio marito volevamo adottare dei bambini".
"Ah, e poi?"
"Lui mi fa: ma scusa, visto che a noi i figli ci vengono perché li dobbiamo adottare?"
"In effetti".
"Ma sa, mica tanto. La fa facile lui, poi nove mesi di gravidanza me li faccio io: e non puoi mangiare il prosciutto, e finiti tutti gli aperitivi... e poi i bambini piccoli, le nottate, le poppate che ti rovinano. Lei almeno se li è trovati fatti, e guardi pure come sono carini"!
Amaltea ha da poco pubblicato il libro Il mare non chiude mai.
Vi proponiamo la bella recensione di Raffaella Slipo (La Stampa) :
La costruzione di un amore.
Non è un manuale sull’adozione questo Il mare non chiude mai - Adottare tre bambini e restare allegri di Amaltea (pseudonimo mitico «nato per difendere i miei figli dalla curiosità» dietro cui si nasconde un’inviata e corrispondente di razza): non offre consigli su come affrontare le difficoltà, ricette magiche per creare la famiglia perfetta, piuttosto racconta con ironia e passione il percorso emotivo di una famiglia dopo l’arrivo di tre bambini russi di 6, 4 e 3 anni, quando bisogna inventarsi una vita insieme e ci si incomincia a chiedere «chi adotta chi?» per poi arrivare a capire che «la condizione adottiva in fondo è comune ad ognuno. Che siamo tutti un po’ orfani». E che l’amore - ma questo vale anche per troppi genitori biologici, che danno tutto per scontato - si costruisce giorno per giorno.  
Il piano B
La costruzione di un amore è un viaggio interiore, ricostruito nel libro raccontando piccole e illuminanti vicende quotidiane, volta a volta buffe o commoventi. Prima tappa, la sincerità, con se stessi e con i bambini: ma una sincerità che lascia spazio alla creatività e alla mutevolezza del reale. Sì, certo, l’adozione è un piano B rispetto ad avere figli biologici, ma solo nel senso che la vita - non accade forse sempre così? - è andata diversamente da come ci si aspettava. Così la mamma spiega alla bambina Sofia: «Ti ricordi quando dovevamo andare in campagna da amici ma poi pioveva ed è saltato tutto e allora siamo andati al mare ed è stato bellissimo? Una giornata iniziata male si è trasformata in una giornata perfetta». E la bambina Sofia sorride rassicurata: «Allora noi siamo il mare». 
La memoria condivisa
Seconda tappa nel costruire un amore è la memoria condivisa, ancora più importante nel caso di una famiglia adottiva dove «più ricordi ci sono sulla vita insieme, minore sarà il senso di inadeguatezza rispetto al “pezzo mancante”». Il trucco, dice Amaltea, è costruire grandi storie su piccoli eventi, aggiungere «ti ricordi quella volta che» e raccontarlo ancora e ancora: «Molti eventi sono insignificanti ma non è che dobbiamo scrivere la Recherche. E quando i miei figli dicono “Mamma, ti ricordi quella volta che?” io mi emoziono sempre, anche se è successo il giorno prima». Il potere delle storie è reciproco, per chi le racconta e per chi le ascolta, perchè «le giovani generazioni rafforzano le nostre radici e le nostre storie» e noi abbiamo bisogno di loro per conoscerci meglio raccontandole. 
Giocare in casa
Costruire un amore significa anche trovarsi nei panni dell’altro: capire, improvvisamente, «in tutta la sua pienezza il valore dell’espressione “giocare in casa”» e per contro cosa significa per un bambino arrivare in un paese straniero «schiacciato dal peso di una guerra su più fronti - la lingua, il cibo, l’acqua, qualsiasi cosa -. All’improvviso non capiscono più dove sono non distinguono le voci di sottofondo. É come se diventassero molto più piccoli di quello che sono». è stato così per i tanti Stepa Ying, Sun, Rohit, Dev, Adebanke, Jaineba, Oluchi, «che sono entrati nelle famiglie italiane e si sono adattati alla pasta al sugo» E che oggi dicono: «Dove è finito quel senso di non appartenenza? sta lì, ma ha imparato a trasformarlo in un trampolino da cui saltare».  
Il tempo
Per l’amore ci vuole tempo, «tanto tempo, tutto il tempo che puoi». E non importa se una volta «da non madre mi intrattenevo sull’importanza della qualità delle ore da passare con i propri bambini». Niente di più falso, loro non sono interessati alla qualità ma alla routine, e «tra un interessantissimo laboratorio di giardinaggio di 50 minuti e tutta la giornata passata a trafficare insieme, fare la spesa e rimettere le viti agli occhiali, sceglierebbero ad occhi chiusi la seconda». Solo così i figli esplorano la possibilità che tu diventi per loro «una buona abitudine». 
Il passaggio di testimone
Poi c’è tutto il resto: le difficoltà quotidiane, la stupidità di certi pregiudizi, le gioie del primo Natale. Resta, al fondo della lettura, l’idea potente che tutti noi, bambini e adulti, adottati o no, siamo una catena, di generazioni, di affetti, di storie. E una famiglia nasce davvero quando, a un certo punto della vita abbiamo avuto «la sensazione chiara che ci stessero passando un testimone... Il tuffo al cuore in quel preciso istante, quando hai la certezza di essere l’anello di una catena e che il percorso è stato già tracciato. Si tratta solo di correre».













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